Le basi militari Isaf dislocate nei vari territori del West Afghanistan sono una diversa dall’altra. Ingranaggi perfetti. Autosufficienti. Sempre rifornite. Internazionali.
Quella di Herat Camp Arena é l’headquarter. La più grande. Le strade create tra i vari blocchi la trasformano in una cittá. Crocevia con uffici, pizzeria, bar, sale massaggi, internet point, cappella, palestra, officina e mensa. Tutto mimetizzato. Blocchi di cemento, filo spinato, antenne, altoparlanti, metallo, teli a ombreggiare, reti, una statua della madonna con appese le targhette dei caduti, bandiere del reggimento, bandiera italiana. E poi elicotteri e rumore. Tanto rumore. A non farti addormentare mai. Ogni sera il coprifuoco. Concesse solo piccole torce appese al taschino.
Una cosa che ho notato e’ che la palestra non manca mai. Anche nelle basi operative ai confini delle zone di fuoco, attrezzata o improvvisata. Necessita’ di allenare, di mettere a tacere una tensione costante. Officine trasformate al bisogno in palestre, tende in sale fitness. I ragazzi del Regional Command West si allenavano ogni sera o all’alba per evitare i 50 gradi di minima. Trazioni tra un container e un muro, flessioni, e sacchi da colpire a mani nude. Immobili gli alti profili delle montagne di Farah.
Non tutte le basi sono uguali pero’. Si distinguono per gli alloggi, la struttura e le mense. La mensa made in Usa era il regno di un bambino goloso. Al buffet torte ricoperte di smarties e carne salata da asporto. Giovani barbie con fucili sotto il tavolo, biondi palestrati davanti a videogiochi, un’atmosfera da party. Lo zaino andava lasciato all’ingresso, la tentazione scorte in stile supermarket era grande.
Durante quel mese di agosto ho scoperto e sperimentato che i cuochi stellati vanno mandati nelle zone più pericolose, maggiore il pericolo migliore il pasto. Forse l’ultimo. Nella Zeerko Valley, un’area impervia nella provincia di Shindand, una Fob la Safe House in cui gli scontri sono all’ordine del giorno, ho mangiato la migliore pizza della mia vita.
Ho passato molte notti in basi diverse. Per raccontare. Per viaggiare. Ogni giorno una missione, un’attività’ una scoperta, un rischio. Ho dormito in container lussuosi con letti e lenzuola bianche, in tende comuni gonfiate a rumore incessante, su brandine militari le braccia a cuscino, scarponi slacciati e all’erta. Ho fatto docce salvifiche in camion, grate a terra, vestita, tanto il deserto prosciuga.
Ho mangiato al tavolo ufficiali, alla mensa, nelle Fob e nelle trincee scavate a vanga di Bala Morghab nella provincia di Badghis. Trincee anno 2000. Nelgli avamposti, il fuoco incrociato, gli occhi nel binocolo, i mortai sempre carichi e una caffettiera in una nicchia. A ritrovare umanità’. Non c’era posto per il riposo, ci si dava il cambio a settimane alterne, troppo rischio, troppa tensione, troppo caldo. Si moriva a difesa di piccoli villaggi. Strappati alla furia dei talebani, dei contrabbandieri. Bonificati. Perle sparse in un mare di sabbia.
Si moriva per gli improvised explosive device (IED) ordigni esplosivi sulle strade, sotto i ponti, nelle condutture dell’acqua, nella sabbia. Si moriva senza potersi difendere. Ho conosciuto due uomini che sono esplosi con la volontà di disinnescare un ordigno. Il nemico e’ invisibile. Colpisce a distanza. Puoi saltare in aria da un momento all’altro. E’ questa la guerra Afghana, una tensione logorante, un destino che si accetta ogni secondo, che si compie ad ogni passo, che si paga con ogni goccia di sudore.
I ragazzi e le ragazze della Taurinense sono preparati, saldi, all’erta sempre. Sono gentili, sorridenti, giovani, molto giovani. Ti aprono la portiera del Lince, ti fanno spazio sul carro armato, ti parlano di casa, ti portano l’acqua, si prendono cura di te che sei un bersaglio come loro. Non perdono mai di vista la sicurezza. In alcune occasioni ho sentito la parola Warning, li ho visti impallidire, sfoderare l’arma, in assetto di attacco, di difesa.
Un tardo pomeriggio al rientro da una missione mi fermai a bere qualcosa al bar di Camp Arena. Al bancone un sorriso holliwoodiano, uno sguardo scuro, un approccio interessante. Immediatamente intercettai i segnali di pericolo mandati dal mio amico Nic dall’altro lato. Li ignorai. Mi attraeva quell’incontro. Poche domande, zero risposte. Tu chiamami Iena. Iena? Ero piombata in un film?
Con i suoi modi gentili ma decisi in un micro secondo ero fuori dal bar a camminare verso un dove ignoto. Dolore al braccio, una stretta mi afferrò e mi stacco da quella bolla ipnotica. Graffio sul giradischi. Falena nel cono di luce. Sei pazza? Ma non sai chi é ? No e grazie a te non lo saprò mai. Stai lontana da quelli come lui. Ma quelli chi? Se c’e’ una cosa che non si deve mai dire a una come me e’ di stare lontana da una certa situazione. Poi mi indico’ una zona recintata da filo spinato e telecamere. Lui sta lí mi disse e questo bastava a concludere.
Più tardi vidi un veicolo che non saprei descrivere. Una sorta di fuori strada attrezzato a carro armato carico di uomini vestiti da assalto, barbe lunghe, coltelli, armi, tatuaggi, occhiali scuri e bende. Lui era tra loro. Sarei partita su quel mezzo subito. All’ombra di quel sorriso di lama tagliente. Sapore di pericolo ai limiti del lecito. Contractors. Si li avrei seguiti. Invece rimasi alle regole del mio ingaggio. Ma con quel sapore metallo in bocca. Metallo sangue. Borderline tra l’incoscienza e la curiosità, tra l’etica e la narrazione, sarei saltata a bordo di quel mezzo. Non ero alla ricerca del male. Ero alla ricerca. Ma ero lí per uno scopo preciso. Non era concesso.
Nelle basi vige un codice da rispettare. Molto duro soprattutto per gli embedded come me. Un codice non detto. Implicito. Ti viene consegnato a labbra serrate con elmetto e giubbotto antiproiettile. Sei dentro, sei militare per un tempo limitato ma sei estraneo. Sei ospite. Un ospite che costa rischio. E sei privilegiato. Impugni un arma che non é d’ordinanza. Forse più pericolosa. Puoi vedere ma non oltre un certo raggio. Puoi spingerti fin dove non crei pericolo aggiunto. Devi rispettare.
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