Sono stata abbagliata dal blu, non ho guardato, indagato altro. Non ho ascoltato parole, spiegazioni, traduzioni. Mi sono insinuata tra le pieghe del blu, tra le sue trame.
Quelle ombre dense accasciate, meduse statiche, icone mute. Non sono riuscita da addentrarmi nel loro dolore di madri, nonne, sorelle. Sono rimasta a galleggiare, ipnotizzata a osservare bambini immersi in vorticose maree di abbracci materni. Anestetizzata, da un veleno blu, blu lapislazzulo, blu Afghanistan.
Dietro la cortina non ho scorto nulla. Loro non rispondevano al mio puntare l’obiettivo. Immobili. Celate. Celata io. Indiscreta, fagocitavo immagini, bulimia da falena. La mia presenza all’Ospedale Regionale Pediatrico di Herat mi era stata concessa per poco. Avevo il tempo di una visita ufficiale, non la mia. Non una domanda, non una scusa. Quante storie dietro quelle grate, non le ho colte, non le ho potute narrare.
Pochi volti quelli dei bambini. Ho scorto mani amorevoli coprire piccoli corpi al mio passaggio, sollevare lenzuola, scostare veli come sipari su sguardi addomesticati. Ho visto piccole unghie laccate di mani trafitte da flebo e madri ripiegate tra le increspature di un telo. E tanta attesa.
In una corsa di stanze immacolate, ho rubato attimi privandoli di un ieri e un domani. Nell’aprire nuove porte, in un onirico calendario dell’avvento, ho finalmente scorto volti di donna, donne severe, statuarie, silenziose. Poi una vecchia, un sospiro di vanità, un sorriso malizioso, timido, compiaciuto su volto antico di rughe forse troppo a lungo dimenticato. Gli uomini erano confinati in una sala altra. Questo era il tempio delle madri e dei bambini, il loro grembo.
Ma in una tale intimità, data dalla cura e forse dal dolore, l’apnea emozionale del burqa non trovava posto nel mio lessico.
Come donna occidentale mi sono adeguata ai loro costumi. Non mi sono quasi mai indignata nell’osservare la loro accettazione verso il burqa. Cosí ne ho comprato uno. L’ho provato. Si sta come dentro un sacco. Lo sguardo vaga impazzito alla ricerca di uno spiraglio, il fiato rimbalza sul viso, i piedi inciampano, una gabbia danzante, fluttuante ma appiccicosa, invadente e protettiva.
Quante quinte, quanti sipari, in questo teatro dell’assurdo che assurdo non é. Un gioco di riflessi, ipnosi e fatamorgana che inganna l’attenzione e la pone su altro. Un gioco di trame in cui sono caduta.
Quelle donne, inconsapevoli, prese da un altro tempo, mi hanno donato i loro ritratti. Prima di uscire una di loro mi ha mostrato un foglio. Una denuncia? Una richiesta? Una semplice ricetta? Non lo saprò mai. Sembrava impaurita, un gesto spavaldo scappato dalla briglia del celare.
Come ogni giorno al rientro in base, tra le mani una matrioska di emozioni che ho sbucciato a poco a poco. Il mio back up quotidiano. Ogni immagine un abisso di domande. Ma l’impossibilità di approfondire, di capire, di sapere, mi ha lasciato sospesa.